Sono due gli elementi che portano a questa frase, e mi vorrei in particolare soffermare sul secondo. Il primo è la deumanizzazione del detenuto, compiuta facendo coincidere l’intera sua identità con la colpa imputatagli. In questo caso, che sia anche un essere umano con dei diritti e dei bisogni passa in secondo piano. Quando ci viene fatto un torto o commesso un reato, lasciamo che sia il senso di vendetta mascherato da quello di giustizia a gestire le nostre emozioni, che alla fine rivelano la convinzione che chi ha sbagliato deve pagare, meglio se con la sofferenza. Il senso di giustizia è quello della vendetta mediato dalla razionalità, che ci fa capire come un essere umano possa sbagliare, come debba essere responsabile di ciò che ha commesso ma in modo bilanciato al suo reato, non spropositato, e che dovrebbe farci riflettere su come sia dimostrato che mettere in punizione un bambino non serva assolutamente a nulla per farlo crescere e fargli assumere la responsabilità di ciò che ha fatto, quindi di sicuro non può funzionare con una persona adulta.
Il secondo elemento riguarda l’efficacia del carcere. Prendendo in esame i dati riportati dall’Associazione Antigone, si evince che il tasso medio di sovraffollamento delle carceri italiane è del 107.4%; il 74% degli istituti non fornisce alcun accesso a Internet ai detenuti: davvero si può pensare di rieducare le persone e di reinserirle in una società dopo che queste sono state isolate per anni in condizioni orribili senza avere alcun accesso al mondo reale neanche attraverso la rete? Infatti, ben il 62% dei detenuti è a più di una esperienza in carcere, è recidivo. Questo porta a chi è fuori dalle mura carcerarie a vedere i detenuti come persone intrinsecamente irrecuperabili, quando invece è il sistema a non permettere loro di uscire dal circolo vizioso dei reati. È quindi palese che un sistema del genere, visti i numeri, abbia obiettivamente fallito, se più della metà delle persone che transitano in carcere vengono poi spinte a commettere altri atti illeciti. Al di là delle oggettive mancanze in tema di formazione e reinserimento in società dei detenuti, il dato del sovraffollamento e dei suicidi (nel 2022 si sono tolte la vita, ad oggi, 59 persone) aggrava di molto la situazione. Una persona che arriva ad uccidersi è una persona disperata e abbandonata alla sua malattia mentale, non curata. E per ogni persona che si uccide, molte di più sono quelle che non arrivano a compiere quel gesto ma stanno comunque molto male e presentano un disagio psicofisico ed esistenziale enorme. Cosa sarà mai portata a fare, una volta fuori dal carcere, una persona disperata? Come mai potrà comportarsi in una società che non le appartiene più, una persona che ha toccato il fondo e non riesce a risalire, imbruttita dalle esperienze, che non sente più appagamento nella sua vita e sente che tutto le è stato tolto? Pare decisamente palese che gli ex detenuti in queste condizioni di salute non abbiano gli strumenti per potersi reintegrare da soli.
Se non arriviamo con l’empatia e la razionalità a voler trattare i detenuti in modo umano, allora pensiamo a cosa possa favorire noi e la nostra società fuori dal carcere: se le persone in stato di detenzione riescono ad avere condizioni di salute che non le facciano sentire disperate e pronte a tutto pur di sopravvivere, se riusciamo a farle sentire integrate e non marginalizzate, la nostra sicurezza è più tutelata. Loro saranno invogliati a non commettere ulteriori reati, proteggendoci, noi saremo un po’ più umani nel gestire la loro permanenza in carcere. Trattare in modo umano chi è in carcere è un guadagno per tutti.